Potassio – Il sistema periodico

Il potassio, come ho detto, è gemello del sodio, ma reagisce con l’aria e con l’acqua con anche maggiore energia: è noto a tutti (ed era noto anche a me) che a contatto con l’acqua non solo svolge idrogeno, ma anche si infiamma. Perciò trattai il mio mezzo pisello come una santa reliquia; lo posai su di un pezzo di carta da filtro asciutta, ne feci un involtino, discesi nel cortile dell’Istituto, scavai una minuscola tomba e vi seppellii il piccolo cadavere indemoniato. Ricalcai bene la terra sopra e risalii al mio lavoro. Presi il pallone ormai vuoto, lo posi sotto il rubinetto ed aprii l’acqua. Si udì un rapido tonfo, dal collo del pallone uscì una vampa diretta verso la finestra che era vicina al lavandino, e le tende di questa presero fuoco.

Un vero chimico, per essere un vero chimico, deve combinare almeno un disastro. Altrimenti è sospetto, come del resto lo è chiunque non sbagli mai. A qualcuno quel disastro costa la vita, nella maggior parte dei casi però si traduce in un grande spavento e un’ancor più grande figura di merda.

Anche a me, che sono un vero chimico sebbene non sia praticante, il disastro è capitato col potassio. Mentre al collega Levi il problema lo ha dato il potassio puro, che come tutti sanno reagisce vigorosamente con l’acqua, nel mio caso il guaio è legato ad una soluzione di un sale di potassio.

Un soluzione invero particolare: la solfocromica, ottenuta sciogliendo il sale, arancione, di Bicromato di Potassio in Oleum (Soluzione concentrata al 98% di acido solforico). E’ una delle robe più corrosive che ci siano: in laboratorio viene utilizzata per sciogliere e corrodere anche la più piccola impurezza dalla vetreria.

Erano gli ultimi giorni prima della cerimonia della tesi, gli esperimenti erano finiti e l’ora tarda. Solo io, il mio amico G. e la signora delle pulizie occupavamo il piano dei laboratori.

Riordinando, ci cadde il boccione in vetro, contenente gli ultimi residui di solfocromica, sul pavimento. Ci guardammo negli occhi, poi sui jeans nella parte scoperta dal camice: i primi forellini si erano istantaneamente formati. La chiazza color cocacola, di vetro e inferno liquido, copriva circa un metro quadro.

G. propose di buttarci acqua, ma l’ipotesi fu immediatamente scartata: avremmo sparso liquido corrosivo per tutto l’istituto.

G. allora abbrancò della carta asciugamani e fece per raccogliere la poltiglia. In bocca mi rimase la frase: “No! Il calore liberato dall’ossidazione della cellulosa è troppo! Potrebbe incendiare la carta! Non lo fare!” mi uscì solo un tardivo: “No!”

La carta prese fuoco in un attimo e il fumo annebbiò il laboratorio. Nel frattempo ci accorgemmo che le suole delle nostre scarpe si erano assottigliate: la solfocromica ce le stava mangiando. Bisognava inventarci qualcosa.

Quel qualcosa fu il tip-tap. Trovammo un vecchio barattolone di bicarbonato di sodio, ideale per neutralizzare l’acido: la polvere friggeva sotto le nostre suole bloccando la distruzione delle nostre scarpe e ribolliva nella chiazza annullandone in pochi minuti la pericolosità. A quel punto sì che la brodaglia tossica fu raccoglibile con carta e guanti in lattice.

La signora delle pulizie era salva: smaltimmo il bordello prima del suo arrivo e le lasciammo un laboratorio sicuro in cui operare. Ci sentivamo due Indiana Jones nella pubblicità di un amaro, eravamo solo due pirla con le mani di merda.

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