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#vieniviaconme

Il tablet è nuovo di zecca, leggero come l’aria, e sottile come la lama di una sciabola. Arma impropria contro i curiosi passeggeri di questo jet in volo da Parigi a Milano.
Lo schermo ha colori così luminosi che li attira come una lanterna notturna con le falene, solo che il bon ton li frena, le regole li impastano ai loro sedili ed impediscono di toccare, di fare domande.
Rigorosamente in “modalità aereo” leggo le mail ancora inevase e rispondo in bozza alle più urgenti, elimino con non poca soddisfazione tutte quelle reputate inutili.
Tra un tocco e l’altro al mio gioiello elettronico, sbircio i miei vicini di posto ed ogni volta li colgo nell’atto del dissimulare. Muoiono dalla voglia di vedere da vicino il mio giocattolo, ma si vergognano di chiedere. Fossero bambini non avrebbero questo problema: verrebbero qui da me e mi chiederebbero di farglielo vedere, magari di farceli giocare un po’. La spontaneità e la tenerezza tipica dell’infanzia che i più perdono e che tutti smussiamo, crescendo. Che peccato. Quanto si perde a diventare grandi, penso.
L’atterraggio avviene in perfetto orario, come ci informa l’assistente di volo poco dopo aver toccato la pista, le operazioni di sbarco iniziano e, con ordine, tutti si preparano ad uscire. In attesa dell’apertura delle porte accendo il cellulare. C’è una nuova mail, evidentemente spedita mentre ero in volo, che non ha oggetto ed un testo alquanto sibillino “#vieniviaconme” . Proprio così, con “l’hashtag” che oggi va tanto di moda. E’ sicuramente spam, penso, perché il mittente sono io stesso: la mail arriva dal mio tablet che è ancora spento in “modalità aereo”. Il finger mi inietta direttamente in aeroporto e inizio mentalmente ad incastrare dieci minuti di telefonata con l’helpdesk informatico per bonificare la mia posta elettronica tra un appuntamento e l’altro. Probabilmente tra cinque e le sei di oggi pomeriggio dovrei avere il buco libero. Salgo in fretta in taxi ed inizio a telefonare in ufficio, ad un paio di clienti importanti, mentre distrattamente vedo sfilare la scenografia della mia adolescenza: Corso di Porta Vittoria, il Policlinico…
Finalmente arrivo, pago e scendo. Il tassista mi chiama, mi allunga il resto e riparte. Due banconote da 5 euro e una da dieci finiscono, ben allineate, nel mio portafoglio. E’ proprio in questo momento che riesco a leggere quel simbolo “#” su retro di una dei due biglietti da cinque. Lo spizzo, come fosse l’ultima carta da scoprire con un tris in mano, e rileggo, nell’arco di meno di un’ora, #vieniviaconme .
Non sono solito stupirmi, non mi capita da anni, ma stavolta confesso che un po’ lo sono. Percorro le ultime centinaia di metri, che mi separano dall’ufficio, nel marasma più completo questa doppia coincidenza mi sta mandando in crisi e non riesco a capire il perché. Di solito sono una macchina da guerra, preciso, puntuale, concentrato; adesso invece, in questi ultimi duecento metri penso a tutt’altro e nemmeno so bene a che cosa.
Ci vuole un caffè. Forte. Nero e bollente. Entro nel bar sotto l’ufficio e lo ordino assieme ad un bicchier d’acqua che mi bevo come bevevo dalla fontanella dopo le interminabili partite a pallone giocate con gli amici sul marciapiede.
Sulla porta del locale c’è un bambino in braghe corte che mi guarda. Lo conosco bene quel bambino. Sono io, tanti anni fa. Io lo fisso a bocca aperta, con la tazzina sospesa ad un centimetro dal mio labbro. Lui mi si avvicina sorridendo, mi tende la manina e mi dice: “#vieniviaconme” .

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